LA PAROLA DI PAPA FRANCESCO a cura di Gian Paolo Cassano

Mercoledì 30 giugno, all’Udienza generale, nella seconda catechesi dedicata alla Lettera ai Galati, il Papa ha ripercorso la storia di San Paolo. Egli ha sottolineato che l’intento dell’apostolo è quello di “ribadire la novità del Vangelo”, che i cristiani della Galazia, hanno ricevuto dalla sua predicazione, “per costruire la vera identità su cui fondare la propria esistenza”. Paolo “non segue le basse argomentazioni utilizzate dai suoi detrattori,” ma “vola alto,” indicandoci così “come comportarci quando si creano conflitti all’interno della comunità”. Se “il nocciolo della diatriba” è la circoncisione, la “principale tradizione giudaica”, Paolo sceglie “di andare più in profondità”, perché “la posta in gioco è la verità del Vangelo e la libertà dei cristiani”, non fermandosi “alla superfice dei problemi, come spesso siamo tentati di fare noi.” Egli non cerca il consenso degli uomini, ma quello di Dio, perché “se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo!”, ricordando “di essere un vero apostolo non per proprio merito, ma per la chiamata di Dio”. Così racconta “la storia della sua vocazione e conversione”, coincisa con l’apparizione del Risorto durante il viaggio verso Damasco. “Perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”. Paolo “era un vero fariseo zelante”, e un “convinto sostenitore della legge’”, un feroce persecutore, ma “evidenzia la misericordia di Dio nei suoi confronti, che lo porta a vivere una radicale trasformazione, ben conosciuta da tutti”. Anche chi non lo conosceva personalmente, infatti sapeva che un antico persecutore “ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere”.
Così la verità della sua vocazione emerge “attraverso l’impressionante contrasto che si era venuto a creare nella sua vita: da persecutore dei cristiani perché non osservavano le tradizioni e la legge, era stato chiamato a diventare apostolo per annunciare il Vangelo di Gesù Cristo.” Paolo è libero “per annunciare il Vangelo ed è anche libero per confessare i suoi peccati”, perché “è la verità che dà la libertà del cuore, è la libertà di Dio”. Per questo, ripensando alla sua storia “è pieno di meraviglia e di riconoscenza”, come se “volesse dire ai Galati che lui tutto sarebbe potuto essere tranne che un apostolo”. Ma inaspettatamente “Dio, con la sua grazia, gli aveva rivelato suo Figlio morto e risorto” per farne un apostolo in mezzo ai pagani. “Come sono imperscrutabili le strade del Signore! Lo tocchiamo con mano ogni giorno, ma soprattutto se ripensiamo ai momenti in cui il Signore ci ha chiamato”. Perciò “non dobbiamo mai dimenticare il tempo e il modo in cui Dio è entrato nella nostra vita: tenere fisso nel cuore e nella mente quell’incontro con la grazia, quando Dio ha cambiato la nostra esistenza.”
Quante volte, davanti alle grandi opere del Signore, ci chiediamo: “com’è possibile che Dio si serva di un peccatore, di una persona fragile e debole, per realizzare la sua volontà?”. Non c’è nulla di casuale, “perché tutto è stato preparato nel disegno di Dio”, perché è “Lui tesse la nostra storia e, se noi corrispondiamo con fiducia al suo piano di salvezza, ce ne accorgiamo. La chiamata comporta sempre una missione a cui siamo destinati; per questo ci viene chiesto di prepararci con serietà, sapendo che è Dio stesso che ci invia e sostiene con la sua grazia. Lasciamoci condurre da questa consapevolezza: il primato della grazia trasforma l’esistenza e la rende degna di essere posta al servizio del Vangelo. Il primato della grazia copre tutti i peccati, cambia i cuori, cambia la vita, ci fa vedere strade nuove.”
Domenica 4 luglio, all’Angelus, il Papa, ha commentato il Vangelo domenicale del rifiuto di Gesù come profeta da parte dei suoi compaesani di Nazaret, perché “non accettano lo scandalo dell’Incarnazione”, che il Figlio di Dio “sia il figlio del falegname”, che in Lui il Signore “si fa vicino a noi, abitando la normalità della nostra vita quotidiana” e non è “astratto e distante” o “un dio dagli effetti speciali”. I Nazareni “conoscono Gesù, ma non lo riconoscono”, perché “possiamo conoscere varie cose di una persona, farci un’idea, affidarci a quello che ne dicono gli altri, magari ogni tanto incontrarla nel quartiere, ma tutto ciò non basta”. E’ “un conoscere superficiale, che non riconosce
l’unicità di quella persona”. Si tratta di un rischio comune, quello di presumere “di sapere tanto di una persona”, etichettandola e rinchiudendola nei nostri pregiudizi. Così i compaesani di Gesù pur conoscendolo da trent’anni, “non si sono mai accorti di chi è veramente Gesù. Si fermano all’esteriorità e rifiutano la novità di Gesù”. E’ ciò che accade “quando facciamo prevalere la comodità dell’abitudine e la dittatura dei pregiudizi”, per cui “è difficile aprirsi alla novità e lasciarsi stupire. Noi controlliamo, con l’abitudine, con i pregiudizi. Finisce che spesso dalla vita, dalle esperienze e perfino dalle persone cerchiamo solo conferme alle nostre idee e ai nostri schemi, per non dover mai fare la fatica di cambiare.”
Può succedere anche a noi credenti con Dio, “a noi che pensiamo di conoscere Gesù, di sapere già tanto di Lui e che ci basti ripetere le cose di sempre”. Ma questo non basta con Dio. “Senza apertura alla novità e alle sorprese di Dio, senza stupore, la fede diventa una litania stanca che lentamente si spegne e diventa un’abitudine, un’abitudine sociale”. E’ necessario lo stupore che “è proprio quando succede l’incontro con Dio. (…) E’ come il certificato di garanzia che quell’incontro è vero, non è abitudinario.” Per i compaesani di Gesù “è scandaloso che l’immensità di Dio si riveli nella piccolezza della nostra carne, che il Figlio di Dio sia il figlio del falegname, che la divinità si nasconda nell’umanità, che Dio abiti nel volto, nelle parole, nei gesti di un semplice uomo”. Infatti “Gesù di Nazaret, si è fatto compagno di strada, si è fatto uno di noi. (…) E’ perché uno di noi ci capisce, ci accompagna, ci perdona, ci ama tanto.” In realtà, “è più comodo un dio astratto, distante, che non si immischia nelle situazioni e che accetta una fede lontana dalla vita, dai problemi, dalla società. Oppure ci piace credere a un dio ‘dagli effetti speciali’, che fa solo cose eccezionali e dà sempre grandi emozioni”. Ora “Dio si è incarnato: Dio è umile, Dio è tenero, Dio è nascosto, si fa vicino a noi abitando la normalità della nostra vita quotidiana.” Anche per noi c’è il rischio di non riconoscerlo, come diceva Sant’Agostino: “Ho paura di Dio, del Signore, quando passa. Ma, Agostino, perché hai paura? Ho paura di non riconoscerlo. Ho paura del Signore quando passa. Timeo Dominum transeuntem”.
Nel pomeriggio poi il Papa è stato ricoverato al Policlinico Gemelli, per essere sottoposto in serata ad un intervento programmato al colon.

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