Mercoledì 12 settembre, all’udienza generale, il Pontefice ha proseguito la catechesi dedicata ai Comandamenti, soffermandosi sul terzo comandamento dedicato al giorno del riposo come liberazione dalla schiavitù, ricordando come il Decalogo “promulgato nel libro dell’Esodo”, sia ripetuto “nel libro del Deuteronomio in modo pressoché identico”, fatta eccezione per questa Terza Parola, che compare prima come riposo per benedire la creazione e poi “commemora la fine della schiavitù”. Si tratta di un giorno in cui “lo schiavo si deve riposare come il padrone, per celebrare la memoria della Pasqua di liberazione”. Il Papa ha spiegato che esistono vari “tipi di schiavitù, sia esteriore che interiore”, dalle “costrizioni esterne come le oppressioni, le vite sequestrate dalla violenza e da altri tipi di ingiustizia” ai “blocchi psicologici, i complessi, i limiti caratteriali”, realtà esistenziali dalle quali sembra impossibile prendere le distanze, anche se la storia ci offre esempi di uomini che, pur segnati da forme di oppressione, sono riusciti a conoscere il “riposo della misericordia”, come, ad esempio, San Massimiliano Kolbe e il Card. Van Thuan. “La misericordia di Dio ci libera. E quando tu ti incontri con la misericordia di Dio, hai una libertà interiore grande e, anche, sei capace di trasmetterla”.
Così ha messo in guardia dalla “schiavitù del proprio ego”, che “incatena più di una prigione, più di una crisi di panico”. Infatti “l’ego può diventare un aguzzino che tortura l’uomo ovunque sia e gli procura la più profonda oppressione, quella che si chiama ‘peccato’, che non è banale violazione di un codice, ma fallimento dell’esistenza e condizione di schiavi”. Innumerevoli sono i peccati che possono incatenare l’essere umano: golosità, avarizia, ira, invidia….. Il “vero schiavo” è colui che incapace di amare, e il terzo comandamento per i cristiani è “profezia del Signore Gesù, che spezza la schiavitù interiore del peccato per rendere l’uomo capace di amare”. Così “l’amore vero è la vera libertà: distacca dal possesso, ricostruisce le relazioni, sa accogliere e valorizzare il prossimo, trasforma in dono gioioso ogni fatica e rende capaci di comunione. L’amore rende liberi anche in carcere, anche se deboli e limitati”.
Domenica 16 settembre, all’Angelus, ha ricordato che seguire Gesù significa improntare la propria vita all’amore di Dio e del prossimo. Per questo ha donato a tutti presenti un crocifisso, “segno dell’amore di Dio, che in Gesù ha dato la vita per noi”, a ricordare la strada della croce indicata da Gesù, riproponendo l’interrogativo sulla sua identità che percorre l’intero Vangelo di Marco e la liturgia domenicale.
Gesù desidera che tra Lui e i suoi discepoli s’istauri una relazione personale. Chiede dunque: “voi, chi dite che io sia?”. Lo chiede anche a ciascuno di noi e forse può accadere che affermiamo con entusiasmo: “Tu sei il Cristo”. Il Signore però ci ricorda “che la sua missione si compie non nella strada larga del successo, ma nel sentiero arduo del Servo sofferente, umiliato, rifiutato e crocifisso, allora può capitare anche a noi, come a Pietro, di protestare e ribellarci perché questo contrasta con le nostre attese, con le attese mondane.” Dire di credere in Gesù non può essere solo questione di parole, ma occorrono “scelte e gesti concreti”, improntati all’amore di Dio e del prossimo. Per seguirlo bisogna rinnegare se stessi e prendere la propria croce. “Spesso nella vita, per tanti motivi, sbagliamo strada, cercando la felicità nelle cose, o nelle persone che trattiamo come cose. Ma la felicità la troviamo soltanto quando l’amore, quello vero, ci incontra, ci sorprende, ci cambia. L’amore cambia tutto e l’amore può cambiare anche noi! Ognuno di noi.”
Poi il pensiero è andato Palermo, augurando che “l’esempio e la testimonianza di don Puglisi continuino ad illuminare tutti noi e a darci conferma che il bene è più forte del male, l’amore è più forte dell’odio.”
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