La parola di Papa Francesco

LA PAROLA DI PAPA FRANCESCO
a cura di Gian Paolo Cassano

Dio mi perdona e “vuole abbracciarmi”, pur “nella situazione più brutta della vita”. Lo ha ribadito il Papa Francesco durante l’udienza generale mercoledì 11 maggio, dedicata alla figura del Padre misericordioso attraverso alla parabola del figlio prodigo. E’ la “logica della misericordia” di Dio a sbaragliare ogni ragionamento dell’uomo, perché il cuore di Dio è una grande casa dove la legge è quella del perdono che redime, della fraternità che unisce. Francesco si sofferma alle due scene finali. Nella prima il padre non vuole nemmeno ascoltare l’atto di umiliazione del figlio che ha riconosciuto i suoi errori, anzi  gli restituisce “i segni della sua dignità: il vestito bello, l’anello, i calzari.” Infatti “l’unica cosa che il padre ha a cuore è che questo figlio sia davanti a lui sano e salvo e questo lo fa felice e fa festa (…) Lo aspettava, quel figlio che aveva combinato di tutto, ma il padre lo aspettava. Che cosa bella la tenerezza del padre” ! E’ una misericordia “traboccante, incondizionata”, che fa intuire al figlio che “nonostante tutto”, è stato “sempre considerato figlio”. Così, per noi, è capire che “la nostra condizione di figli di Dio è frutto dell’amore del cuore del Padre; non dipende dai nostri meriti o dalle nostre azioni, e quindi nessuno può togliercela, nessuno può togliercela, neppure il diavolo! Nessuno può toglierci questa dignità”.
Devo essere certo che “Dio mi attende, Dio vuole abbracciarmi, Dio mi aspetta”. Ma la parabola racconta anche dell’altro figlio che non ne vuole sapere dei sentimenti di tenerezza del padre. “Il figlio maggiore, anche lui ha bisogno di misericordia. I giusti, questi che si credono giusti, hanno anche loro bisogno di misericordia. Questo figlio rappresenta noi quando ci domandiamo se valga la pena faticare tanto se poi non riceviamo nulla in cambio. Gesù ci ricorda che nella casa del Padre non si rimane per avere un compenso, ma perché si ha la dignità di figli corresponsabili. Non si tratta di ‘barattare’ con Dio, ma di stare alla sequela di Gesù che ha donato sé stesso sulla croce – e questo – senza misura”. Alla fine, il padre recupera il figlio perduto e lo restituisce all’altro sperimentando in cuore la “gioia più grande”, quella di rivederli “fratelli”. Ora, “questo Vangelo ci insegna che tutti abbiamo bisogno di entrare nella casa del Padre e partecipare alla sua gioia, alla sua festa della misericordia e della fraternità”.
Celebrando l’Eucaristia di Pentecoste domenica 15 maggio il Pontefice ha rammentato che grazie allo Spirito Santo non siamo più schiavi, ma “figli adottivi”, riattivandosi in noi la paternità di Dio, liberandoci dall’orfanezza in cui siamo caduti” che si riscontra anche oggi.E’ “quella solitudine interiore che sentiamo anche in mezzo alla folla e che a volte può diventare tristezza esistenziale; quella presunta autonomia da Dio, che si accompagna a una certa nostalgia della sua vicinanza; quel diffuso analfabetismo spirituale per cui ci ritroviamo incapaci di pregare; quella difficoltà a sentire vera e reale la vita eterna, come pienezza di comunione che germoglia qui e sboccia oltre la morte; quella fatica a riconoscere l’altro come fratello, in quanto figlio dello stesso Padre; e altri segni simili”. Ma “dall’immenso dono d’amore che è la morte di Gesù sulla croce, è scaturita per tutta l’umanità, come un’immensa cascata di grazia, l’effusione dello Spirito Santo. Chi si immerge con fede in questo mistero di rigenerazione rinasce alla pienezza della vita filiale”.
Al Regina Coeli ha ricordato che lo Spirito Santo “ci insegna l’unica cosa indispensabile: amare come ama Dio”. Infatti essere cristiani è un’opera concreta dello Spirito Santo, perché è Lui che fissa nel cuore ciò che Cristo ha insegnato perché le parole del Vangelo resistano al logorio del tempo e della fragile memoria umana. Lo Spirito Santo è stato “il primo e principale dono” che Gesù “ci ha ottenuto con la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo”. Commentando il Vangelo, il Papa ha affermato “che l’amore per una persona, e anche per il Signore, si dimostra non con le parole, ma con i fatti”: così “osservare i comandamenti” va inteso in senso esistenziale, in modo che tutta la vita ne sia coinvolta. Infatti, “essere cristiani non significa principalmente appartenere a una certa cultura o aderire a una certa dottrina, ma piuttosto legare la propria vita, in ogni suo aspetto, alla persona di Gesù e, attraverso di Lui, al Padre (…) Lo Spirito, infatti, ci insegna ogni cosa, ossia l’unica cosa indispensabile: amare come ama Dio”. Gesù si riferisce allo Spirito Santo come a “un altro Paraclito”, perché il primo è Cristo stesso, divenuto uomo, morto e risorto per l’umanità. Lo Spirito Santo interviene con funzioni di “insegnamento e di memoria”. Così “lo Spirito Santo non porta un insegnamento diverso, ma rende vivo, rende operante quello di Gesù, perché il tempo che passa non lo cancelli o non lo affievolisca. Lo Spirito Santo innesta questo insegnamento dentro al nostro cuore, ci aiuta a interiorizzarlo, facendolo diventare parte di noi, carne della nostra carne (…) Tutte le volte che la parola di Gesù viene accolta con gioia nel nostro cuore, questo è opera dello Spirito Santo”. Chi ha un cuore con questa luce dentro saprà “testimoniare Cristo con franchezza evangelica”.
Gian Paolo Cassano

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