La parola di Papa Francesco

LA PAROLA DI PAPA FRANCESCO
a cura di Gian Paolo Cassano

All’udienza generale di mercoledì 8 febbraio il Papa ha continuato la catechesi sulla speranza cristiana, soffermandosi sulla fonte del conforto reciproco e della pace. Egli ha ricordato come siano gli ultimi delle nostre società ad insegnarci a sperare, perché “nessuno” impara a farlo “da solo”. Riallacciandosi alla Prima Lettera ai Tessalonicesi, Francesco ha chiarito che la speranza, “per alimentarsi”, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, di una “dimora naturale”, cioè la Chiesa: essa non ha solo un respiro personale, individuale, ma “comunitario, ecclesiale”: se speriamo è perché “tanti nostri fratelli e sorelle” hanno tenuto “viva” per noi la speranza. “Tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati. Sì, perché non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere: spera soltanto nel suo benessere e questo non è speranza: è sicurezza relativa; non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi si sente sempre a posto… A sperare sono invece coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite”. Essi danno la testimonianza “più bella, più forte”, perché sono “fermi” nell’affidamento al Signore: “al di là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di misericordia, di vita e di pace. Chi spera, spera di sentire un giorno questa parola: ‘Vieni, vieni da me, fratello; vieni, vieni da me, sorella, per tutta l’eternità’”. Di qui l’invito è a porre l’attenzione su coloro che rischiano maggiormente di perderla: quanta gente “cade nella disperazione e fa cose brutte” !
E qui “la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, che (…) è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarmi a chi soffre; una parola, una carezza, ma che venga dal cuore; questa è la compassione.” Infatti la speranza cristiana “non può fare a meno” della carità genuina e concreta. Come spiega Paolo nella Lettera ai Romani, sono i “forti” ad avere il dovere di “portare le infermità dei deboli”, senza compiacersi. “Portare le debolezze altrui. Questa testimonianza poi non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono – il cristiano mai può dire: me la pagherai!, mai; questo non è un gesto cristiano; l’offesa si vince con il perdono –, a vivere in pace con tutti. Questa è la Chiesa!”. Ed è anche ciò che opera la speranza cristiana, “quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore”. Occorre sostenersi a vicenda, “aiutarci a vicenda. Ma non solo aiutarci nei bisogni, nei tanti bisogni della vita quotidiana, ma aiutarci nella speranza, sostenerci nella speranza”.
Questo è compito primario di coloro a cui “è affidata la responsabilità e la guida pastorale”, non perché “siano migliori degli altri”, ma in forza di un ministero divino che va “ben al di là” delle loro forze: hanno perciò “bisogno del rispetto, della comprensione e del supporto benevolo” di tutti, invocando lo Spirito Santo che è il “soffio vitale”, l’anima della speranza, senza cui “non si può avere speranza”. Così “quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è Lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è Lui a modellare le nostre comunità, in una perenne Pentecoste, come segni vivi di speranza per la famiglia umana”.
Domenica 12 febbraio, all’Angelus, il Papa ha incoraggiato ad essere cristiani di sostanza e non di facciata, prendendo spunto dal Vangelo domenicale. Gesù è venuto per dare compimento e per promulgare definitivamente la legge di Dio, manifestando i suoi aspetti autentici, sia  con la sua predicazione, sia con il dono di sé sulla croce.
“Così Gesù insegna  come fare pienamente la volontà di Dio, con una ‘giustizia superiore’ rispetto a quella degli scribi e dei farisei. Una giustizia animata dall’amore, dalla carità, dalla misericordia, e pertanto capace di realizzare la sostanza dei comandamenti, evitando il rischio del formalismo”.
Dall’insegnamento evangelico Francesco ha tratto tre aspetti: l’omicidio, l’adulterio e il giuramento. Il comandamento  “non uccidere” include anche i comportamenti contrari alla dignità della persona umana, comprese le ingiurie: “certo, queste non hanno la stessa gravità e colpevolezza dell’uccisione, ma si pongono sulla stessa linea, perché ne sono le premesse e rivelano la stessa malevolenza. Gesù ci invita a non stabilire una graduatoria delle offese, ma a considerarle tutte dannose, in quanto mosse dall’intento di fare del male al prossimo. E Gesù dà l’esempio. Insultare: ma, noi siamo abituati a insultare, è come dire ‘buongiorno’. E quello è sulla stessa linea dell’uccisione. Chi insulta il fratello, uccide nel proprio cuore il fratello. Per favore, non insultare! Non guadagniamo niente”. Riguardo all’adulterio Gesù va alla radice del male “attraverso le intenzioni di possesso nei riguardi di una donna diversa dalla propria moglie”. Tutti i peccati, infatti, nascono nel nostro intimo e poi si attuano nel comportamento. Gesù poi chiede ai suoi discepoli di non giurare, perché il giuramento è segno dell’insicurezza e della doppiezza delle relazioni umane, ma “ad instaurare tra di noi, nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità un clima di limpidezza e di fiducia reciproca, così che possiamo essere ritenuti sinceri senza ricorrere a interventi superiori per essere creduti”.
Gian Paolo Cassano

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