LA PAROLA DI PAPA FRANCESCO a cura di Gian Paolo Cassano

All’udienza generale, mercoledì 18 agosto, Francesco ha sottolineato che l’insegnamento paolino sul valore della Legge “merita di essere considerato con attenzione”. Infatti la stessa legge e i dieci Comandamenti, afferma il Pontefice, si devono osservare, ma “siamo giustificati per la gratuità della fede in Cristo Gesù”. L’Apostolo, scrivendo ai Galati, sostiene che la Legge è stata “come un pedagogo”. Ora, nel sistema scolastico dell’antichità, il pedagogo era “uno schiavo che aveva l’incarico di accompagnare dal maestro il figlio del padrone e poi riportarlo a casa”, proteggendolo così “dai pericoli e sorvegliarlo,” con una funzione “piuttosto disciplinare”; quando il ragazzo diventava adulto, “cessava dalle sue funzioni.”
Il Papa ha evidenziato come la convinzione dell’Apostolo sia che “la Legge possiede certamente una sua funzione positiva – quindi come pedagogo nel portare avanti -, ma è una funzione limitata nel tempo. Non si può estendere la sua durata oltre misura, perché è legata alla maturazione delle persone e alla loro scelta di libertà. Una volta che si giunge alla fede, la Legge esaurisce la sua valenza propedeutica e deve cedere il posto a un’altra autorità.” Paolo sembra voler suggerire ai cristiani di dividere la storia (della salvezza e quella personale) in due momenti: “prima di essere diventati credenti e dopo avere ricevuto la fede. Al centro si pone l’evento della morte e risurrezione di Gesù”. A partire dalla fede in Cristo “c’è un ‘prima’ e un ‘dopo’ nei confronti della stessa Legge”: prima dall’essere ‘sotto la Legge’, dopo vissuta seguendo lo Spirito Santo (cfr Gal 5,25). “È la prima volta che Paolo utilizza questa espressione: essere ‘sotto la Legge’. Il significato sotteso comporta l’idea di un asservimento negativo, tipico degli schiavi. L’Apostolo lo esplicita dicendo che quando si è ‘sotto la Legge’ si è come dei ‘sorvegliati’ e dei ‘rinchiusi’, una specie di custodia preventiva. Questo tempo, dice San Paolo, è durato a lungo, e si perpetua finché si vive nel peccato.” Nella Lettera ai Romani poi Paolo espone in maniera più sistematica la relazione tra la Legge e il peccato, come cioè la Legge porti “a definire la trasgressione e a rendere le persone consapevoli del proprio peccato.” L’esperienza comune, poi, ci insegna che “il precetto finisce per stimolare la trasgressione.” Ora però “siamo stati liberati dalla Legge” (Rm 7,6) grazie alla giustificazione di Gesù Cristo. La Torah “era stata un atto di magnanimità da parte di Dio nei confronti del suo popolo”, aveva il compito di “fissare la strada per andare avanti. Certamente aveva avuto delle funzioni restrittive, ma nello stesso tempo aveva protetto il popolo, lo aveva educato, disciplinato e sostenuto nella sua debolezza, soprattutto la protezione davanti al paganesimo”. Non si può però estendere la sua durata oltre misura, “perché è legata alla maturazione delle persone e alla loro scelta di libertà. Una volta che si giunge alla fede, la Legge esaurisce la sua valenza propedeutica e deve cedere il posto a un’altra autorità.”
Francesco poi ha poi invitato a chiedersi “se viviamo ancora nel periodo in cui abbiamo bisogno della Legge, o se invece siamo ben consapevoli di aver ricevuto la grazia di essere diventati figli di Dio per vivere nell’amore” e se “disprezzo i Comandamenti” o li osservo, sapendo che “quello che mi giustifica è Gesù Cristo”.
Domenica 22 agosto, all’Angelus, commentando il vangelo domenicale, ha invitato a lasciarsi mettere in crisi da Cristo, interpretando “quel segno e a credere in Lui, che è il vero pane disceso dal cielo, il pane della vita.” Parole dure e incomprensibili alle orecchie della gente, così che alcuni tornano indietro, ma “Pietro, a nome di tutto il gruppo, conferma la decisione di stare con Lui: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna.” È la via maestra, seppur difficile. Infatti “Dio non si fa trovare in sogni di grandezza”, né tantomeno “fuori dalla vita e dalla storia”. È infatti questa la logica di Dio: “il vero pane della salvezza, (…) è la sua stessa carne” e “prima di osservare delle leggi o soddisfare dei precetti religiosi, occorre vivere una relazione reale e concreta con Lui”.
Per questo le parole di Gesù creano oggi, come all’epoca, grande scandalo, perché Dio che decide di incarnarsi e di salvarci attraverso “la debolezza della carne umana rappresenta spesso anche per noi, un ostacolo”. Dio “si è umiliato fino a caricarsi delle nostre sofferenze e del nostro peccato, e ci chiede di cercarlo, perciò, non fuori dalla vita e dalla storia, ma nella relazione con Cristo e con i fratelli. Cercarlo nella vita, nella storia, nella vita nostra quotidiana. E questa, fratelli e sorelle, è la strada per l’incontro con Dio: la relazione con Cristo e i fratelli.”
E’ ciò che Paolo “chiama la ‘stoltezza’ del Vangelo di fronte a chi cerca i miracoli o la sapienza mondana”, una “scandalosità” che “è ben rappresentata dal sacramento dell’Eucaristia.” Ora dall’Eucaristia guardata con gli occhi del mondo nasce una domanda che sembra sacrilega: “perché mai nutrirsi assiduamente di questo pane?” Quando Gesù “spiega che quel gesto è segno del suo “sacrificio, cioè del dono della sua vita, della sua carne e del suo sangue, e che chi vuole seguirlo deve assimilare Lui, la sua umanità donata per Dio e per gli altri, allora questo Gesù non piace.” Di qui l’invito a non meravigliarsi “se Gesù Cristo ci mette in crisi”, ma a preoccuparsi: “se non ci mette in crisi, perché forse abbiamo annacquato il suo messaggio! E chiediamo la grazia di lasciarci provocare e convertire dalle sue parole di vita eterna”.

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